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PRESENTAZIONE
La storia della nostra Velletri è stata raccontata da una lunga teoria di studiosi, chi esaminando i principali avvenimenti che l’hanno vista come protagonista chi attraverso i monumenti e le opere d’arte che nei secoli hanno segnato la sua civiltà chi, infine, tramandando a tutti noi le usanze, i costumi e le tradizioni che in vario modo hanno scandito e cadenzato il dipanarsi degli anni, che si sono ceduto di volta in volta il “testimone” come in una staffetta senza soluzione di continuità.
Moreno Montagna, con la sensibilità che gli è propria e con la puntualità delle sue ricerche, rare qualità che difficilmente convivono nella stessa persona, con questo volumetto ha fatto riemergere dall’oblio della storia un episodio, qual è quello della battaglia di Campomorto, che la polvere dei secoli aveva ingiustamente coperto con l’avvicendarsi di episodi militari più significativi.
Sono grato, pertanto, all’amico Moreno per averci restituito, con un’accattivante e travolgente rima che ci spinge a leggere i suoi versi con l’ansia di quelli che verranno dopo, oltre agli avvenimenti bellici soprattutto le figure di Littoria “la dolce” e Bellona “la guerriera” che entrano così nel nostro immaginario sempre alla ricerca di muse ispiratrici.
Ulteriore “segreto” del prezioso lavoro di Moreno è quello di averci provato ancora una volta che i grandi respiri della storia quasi sempre, e dubito solo per un rispetto alla prudenza, sono frutto dei sospiri della gente del popolo.

Renato Mammucari



A chi mi ha sopportato in
questo lungo passatempo


INTRODUZIONE
Questo poemetto, scritto con fantasia sulle vicende storiche del celebre condottiero Roberto Malatesta, è una rivisitazione che parte da una tesi che forse sorprenderà il lettore.
Tutto è iniziato per gioco, ma il pensiero che Velletri non avesse una eroina ha sempre stuzzicato in me la passione nella ricerca, che si è rivelata però infruttuosa: allora perché nel fantasticare non crearne addirittura due?
Il racconto, anche ironico, è sulla battaglia di Campomorto, con l’innesto di due forti donne: Littoria la dolce e la guerriera Bellona.
La prima, Littoria (affinità anche sui luoghi), ispirata dalla “nemica” Vittoria Colonna, una delle migliori poetesse del ‘500, e la seconda, Bellona, stimolata dalla grintosa Camilla citata nel virgiliano poema e mostrata virginea nel primo canto da Dante; vestita come sorella bellicosa del dio della guerra, Marte, questi presente in città con un maestoso tempio, “Urbs inclyta Martis”, come Svetonio riferisce di Velletri
([H] 37a sestina, 6a riga)*.
Un pensiero all’ispiratrice (…) e musa Calliope, che mi ha spalleggiato in questo passatempo, dea della poesia epica e dell’eloquenza, prima delle nove muse, raffigurata coronata d’alloro, seduta, con un libro in grembo.
Dopo l’impalpabile fantasia di cui fanno parte alcuni dei nostri personaggi, nella seconda parte, sono riportate le gesta della cruda realtà: questo palustre territorio della campagna veliterna diventa brutalmente l’arena di due eserciti a confronto. Qui di scatena la battaglia più aspra e sanguinosa mai verificatasi fino ad allora nella nostra penisola. Una battaglia che vede di fronte molteplici statarelli, signorie e personaggi di mezza Europa e Asia mussulmana.
Numerosissime furono le perdite, in special modo dalla parte Aragonese con più di milleduecento soldati morti, oltre 80 armigeri affogati mentre tentano di scappare e molteplici prigionieri ottomani catturati. Circa 360 uomini d’armi di cui 33 Capitani sono portati in Velletri e rinchiusi in San Clemente (le notizie però non fanno sapere se in chiesa, nel seminario o nel chiostro); i racconti del tempo affidano alla storia anche i nomi più importanti di questa vicenda.

Moreno


(*) le note in maiuscolo nel poemetto sono riportate in seguito nella storia.

PASSIONE NOSTRANA         

 

1          Questo dubbio ch’ogni dì mi coglie
nel presentar la storia velletrana,
mentre fioriscon ramoscelli e foglie [1]
il ciel s’oscura, tuoni e tramontana.
Or par che tutto forgian le stagioni,
sorreggimi nell’intrigo di passioni.

2          Cantiamo Diva del popolano volsco [2]
nella meravigliosa terra di pianura
e di montagna l’intrigato bosco,
mite l’inverno e mite anche l’arsura.
Rigogliose colline tondeggianti
antica terra di papi e di briganti.

3          Cantiamo ora che la mente mia
è libera di voglie e di lamenti
or che la terra ringiovanendo stia
piena di verdi foglie e di sarmenti.
Mentre il villano cerca le lordure
in questo luogo pieno d’avventure.

4          Cavalier potenti, principesse e dame
la storia che racconto e che vi narro
d’ora non è, ma ‘l tempo del reame;
tronfia ed assisa su di un verde carro
sussurra Colei nella mente mia [2]
l’amor, la spada, l’odio e gelosia.

5          Nel tenace salir sull’alto colle [A]
giunse Roberto appena fu chiamato [3] [B]
e verso Colui che gli disse e volle, [4] [C]
si serrò il petto in segno di peccato.
È fragile, seppur compare dura
la Dea fulgente nella sua fattura,

6          vi cinse l’eroe d’un aureo candore
che Sisto par di bianco cenerino.
Magnificò or dunque il suo valore
in tre o quattro versi di latino,
che insuperbì il biondo capitano
e accentuò il dogma di cristiano.

7          Lasciò cordialmente quell’ingegno [5] 
tutt’affaccendato nella sua cappella [6] 
cantina pinta con nobile disegno  [D]
a vivi colori dentro a una scudella.
Piantò il Papa sopra quel loggione
che gli scialacquava la benedizione.

8          Partì tosto per le volsche terre
avanti le sue ciurme nove e antiche
giallo lucente come un Baldasserre
entrò sereno nelle mura amiche,
festante gli si fece gente intorno
del dì seguente si fece mezzogiorno.

9          E vidde quello che non vidde mai,
una donzella gli si parò d’un tratto,
e appena la guardò, fioccaron guai,           
e dal destriero cadde giù distratto.
Saltò in pié e gli si parò dinnanzi
e per scostarlo occorsero due nunzi.

10        Quel guardo, quegli occhi celestiali
rimestati nell’agitato sonno burrascoso
sveglian Roberto tra olezzi e orinali
nella tenda fra lo spiazzo erboso,
fuori l’oscurità lunare lo contorna
tra alabarde e cimieri con le corna.

[1] principiato a fine febbraio ‘04, ultimato il 22 sett. ‘07 con il Papa alle porte.
[2] Calliope, musa della poesia epica, la prima delle nove muse.
[3] Malatesta   -   [4] Papa Sisto IV   -   [5][6]  È stato bello fantasticare che Michelangelo era intendo nell’affrescare la Sistina, ma all’epoca dei fatti, ossia dieci anni prima, a dipingere la volta stellata c’era Pier Matteo Lauro de’ Manfredi da Amelia.

2°   deca

11        Il pensier del viso e de la chioma bruna
per la leggiadra dolce dama veliterna,
nella foschia lunare e delle stelle niuna,
facean Roberto uno smorto alla lucerna
che roteava gli occhi insieme al cuore
per riveder la dama ed offrirle un fiore.

12        Quanto aggraziata è Donna Littoria
raggiante nel sol del dì seguente,
e il prode cavalier gonfio di gloria
scordò l’incarico di Rovere reggente, [1]
perdendosi nel viso e in quei occhi
nella beltà ch’apparon come fiocchi.

13        Or comparve a rompere l’incanto
il Cardinal Guglielmo di Estouteville [2] [E]
sul suo destrier con purpureo manto
e gli schiaffa sul grugno un diesille,
citando il detto: - Zinne, pelo e fregna,
là dove Littoria ci sguazza e ci regna.- 

14        Parole crude come una grancassa  
fecer Roberto di un insolente piglio,
or sol volea dipanar ogni matassa
e mirar quella beltà quel dolce giglio
ch’appare sì cortese e sì graziosa,
corse ‘l pensier per divenir sua sposa.

15        Avvicinossi allor la Dea fulgente
sotto le spoglie d’un gagliardo arcere:
“Non passa mese o due che se ne pente” [3]  
disse del porporato da le stringhe nere.
Parlogli ancor di quella sua missione
concessagli da Quarto Rovere leone.

16        “In te ogni mia favella tieni a mente,
ch’ogni creatura al pari tuo par vile
Magnifico diverrai per la tua gente  [4] [B]
che ogni nimico ruminerà di bile.
In te s’aduna amor ed ogni bontade
in te s’unisce forza e volontade”.

17        Roberto allor, arcionò ‘l destriero,
con fasto, lusso e gran magnificenza,
sguainò la spada e inforcò ‘l cimiero
e col guardo cacciò peccat’e penitenza,
rivolto in cielo e al dolce viso in pianto,
spronò, lasciò la Dama e genti al canto.

18        Corse allor Littoria a quel campione
con pura fede, voglia e immenso ardore
e ‘l velo sul petto puntògli a l’occasione
di color tramonto e celestiali aurore.
Partì da la città in testa a mille e cento
de la Dama ‘l desio e nel cor contento.

19        Quel sol che schiara la natura ‘l mondo
del dì nascente su le putride distese [5]
i raggi spande com’imperator giocondo
svanivan stelle e si ergea ‘l paese.
Gli avi nostri d’una sol città volsca,
come la luce, il buio più la offosca.

20        Nel cor l’ansia e ne l’alma il fremito,
la trepidante mano del guerriero
roteava il dardo come l’asta ‘l romito
su la testa dello nimico bianco e nero.
Mettendo odio ribrezzo, punta e lancia
per far pesar di più quella bilancia.

[1] Papa Sisto IV (Francesco della Rovere) 
[2] Cardinal Vescovo Governatore di Ostia-Velletri dal 1461 al 22 feb. 1483
[3] morirà 6 mesi dopo   -   [4] Roberto Malatesta  
[5] malariche Paludi Pontine

3°   deca

21        Sorge dal buio un’insegna bianca
issata su d’una picca alabardata,
portata da una scorta mesta stanca,
allorché al franto ponte fu arrivata,
si pronunciò un intrepido cadetto
con fascino ed è di bell’aspetto.

22        “Scusate, signoria, io qui presente
vengo da la Rocca del Pantano, [1] [F]
pórtovi una missiva ‘ssi importante,
vi manda a dir l’illustre capitano
che se tenete a star disteso in pace
vi taglia, giura … (e a me dispiace)

23        quel vostro piglio che tenete in viso,
(è imbasciata non su mio consiglio)
vuol allargar di spada quel sorriso,
vuol seminar di denti (giuro su figlio)
la distesa pianura insino al mare
e tagliar la lingua e il vostro affare.”

24        - Tornate al vostro turpe ciarlatano
e non parlate a chicchessia persona,
portate la risposta vostra mano
qui si guerreggia, qui non si cojona,
e a lo squillo di trombe lor signori
fan bene a tenersi su i gregori.-

25        - Il periodo dei preamboli è finito,
dite che per parar la sua vergogna
all’illustre vostro zotico imbottito
gli serviranno tre manti di vigogna,
e per pisciar dentro il suo pitale
servono entrambe e tutto ‘l capitale.-

26        Disposto in pace risoluto in guerra
Roberto tra i cavalieri è il più temuto
bravo di spada e ben piantato in terra
dolce nel viso ma di vigor forzuto.
Or col messaggio giunto a stuzzicarlo
far vuol pesticcio più di Magno Carlo.

27        Or per veder di guerra l’andamento
abbisognava del nuovo dì nascente.
Eran tutti i balestreri in movimento
chi girava l’arrosto e ‘l rimanente
attizzava legna a lo foco e preparava,
chi cocea con speto e chi pelava.

28        Allorquando la sera alfin giungea,
a rischiarar con cerei lanternoni
da l’uno a l’altro lato si vedea
apparir tende, destreri con cordoni,
e ne l’intorno a tutti i focarazzi
soldati d’ogni età, vecchi e ragazzi

29        a dar l’inizio a bevere e mangnare
e a satollare più che ce ne entrava,
al fin di tutto s’andava a riposare,
e ‘l vino che la vena straportava
roteava ne la testa e nel cervello
pensando a la guerra del castello.

30        Sotto un nero manto la notte corse,
sorretti insiem e assopita er’ogni cosa,
poi come miraggio la splendente sorse [2]
a rischiarar, e coi suoi raggi dosa
l’argentar de le tende ‘l suo contorno,
a presentare l’alba e ‘l primo giorno. [3]

[1] torrione costiero circondato da paludi, vedi: Cenni sulla storia   - [2] luna
[3] di guerra (qui dura 2 giorni, in realtà durò solamente 6 terribili ore).

4°   deca

31        Correa ‘l millequattrocentottantadue [1]
per andare al castello a conquistare,
già pronto Roberto nelle armi sue
vuol’all’istante ‘l destrer da cavalcare,
percorre tutto ‘l campo e con vigore:
“che squillino le trombe” dà parole.

32        La Rocca è loco al bosco assai vicino 
e ancor più forte è l’odor ch’infrange.
Sei più una schiera con color turchino [G]
venti branchi con ornamenti a frange,
inizia la battaglia, gridino le spade,
ma a far fragor è tutto ciò che accade.

33        Or vi dirò del prode Lupo Ventura [2]
che di Roberto era ‘l suo vassallo
in guerra facea di spada sgozzatura
in pace si ammantava in verde e giallo,
ei spande morte insieme col sorriso
‘l suo nimico lo scruta dritto in viso.

34        Narrerò ancor di Astolfo detto Toto
di biondissima chioma in lieve brezza
che si da arie e intorno a se fa ‘l vuoto
e nel duello di mazza lui accarezza,
capitanava arcieri e dami con forconi,
chi con balestre, spade, e chi bastoni.

35        Poscia vi parlerò di mastro Anselmo 
che lo stracotto avea nei pantaloni,
baldanzoso ed elegante sotto l’elmo
ma sbrindellato e goffo nei speroni,
cavalcava un polledro ansimante 
che pare fosse l’avo a Ronzinante. [3]

36        A parte manca v’era poi un gruppetto
di questi cavalieri e della loro fama,
sotto niun’insegna tenean sul petto
ma sul destrier avean la doppia lama
per dipanar nel gorgo ogni matassa
e fare dello nimico una stirpe bassa.

37        Alfin vi svelerò che sotto spoglie
d’un paladin gentile di gota bella,
si nascondea di Martin sua moglie,
Bellona di ugual nome a la sorella [4]
di Marte bellicoso che facea scempio
che di lì presso avea ‘l sacro Tempio. [H]

38        In diecimila, tra fanti e balestreri
alabarderi, cavaleri e vil ciurmaglia,
‘l radioso Roberto nei suoi penseri,
comando e guida a tutta la battaglia.
Or parve la Dea di Littoria ‘l volto
a mostrar ‘l sentiero di rovi folto.

39        Da giuoco di parole or s’addiviene
a cancellar l’oltraggio per l’offesa,
oggi si scorgerà ‘l leon oppur le iene.
S’approntano i cavaleri a la contesa,
già era pieno ‘l prato, pieno il fosso,
tutti volean arrivar a prender l’osso.

40        L’osso e midollo del turpe capitano [5]
che comandava lo nimico del Supremo, [6]
trito e budelli dell’avverso napolitano,
con spade, e bacio al sangue estremo
del Savello, si dovea vendicar ‘l torto [7] 
sulla funeste piana di Campomorto. [8]

[1] 21 agosto 
[2] si fantastica sulle lotte intestine tra pecore e lupi un secolo prima, nel 1300, e su  un grande condottiero di ventura fu Corrado Lupo intorno al 1350.
[3] cavallo scarno di don Chisciotte.  
[4] sorella di Marte, dea romana della guerra.
[5] Duca di Calabria.   -   [6]  Papa.  -   [7]  i Savelli con Napoli.
[8] campo di battaglia 

5°   deca

41        ‘L primo passo verso la battaglia
attraversar ‘l sentiero menzionato,
a scansar li rovi a la boscaglia,
il manto frondoso si tiene sollevato,
apparvero allor i resti della Rocca
e scintillar d’arme, sotto a chi tocca.

42        Per novellarvi questi singolari fatti
nella gemma del sol, sereno il cielo,[1]
mascherato Zefiro sbuffava a tratti,
e proteggeva la terra un fosco velo,
a lo squillar de l’angeliche e lucenti,
al grido ‘gni frotta di tre parean venti.

43        Così gridando, Roberto urta ‘l cavallo,
si lancia in mezzo spiega la bandiera
con orgoglio passa il drappo giallo,
e drizza la spada su l’inimica schiera,
e roteando accosto al bosco passa,
col focoso polledro sprona e fracassa.

44        A fianco ‘l Ventura col cor di Marte
pugnar per posseder inumana terra,
quand’ecco a turno da diverse parte
arrivaron più di duecento in guerra
da fuor di Rocca su di lor intorno,
ma Toto a manca fu il loro scorno.

45        Fra due spade l’inimico è preso,
e tanta fu la ressa in quella piana
che tra uno e altro è morto o è reso,
come l’iroso Achille alla spartana,
con in testa celata e picca in mano
sotto Troia correa ‘l sangue umano.

46        Bellona su la dritta i suoi richiama
e torna ad infilzar altri da dietro,
richiama ancor a se per la sua fama
riviene a trapassar Guglielmo Pietro,
al ventre conficcò l’argenteo stocco
‘l truce stramazzò dal suo bel brocco.

47        Giungea or coi suoi ‘l goffo Anselmo,
correan tutti ai fianchi al cozzo d’aste,
‘l prode in corazza larga sotto l’elmo
scudo effigiato, un palo in tre cataste,
la durlindana serra ‘l rivale caccia
sferrando colpi su le braccia e faccia.

48        Spaventosa appar a contar le spoglie 
sovra la terra rossa Atropo corse [2]
colei che recide ‘l filo, la vita toglie
portata da l’alitar qua e là trascorse.
Mentre retrarsi i vincitori accorti
recuperando dal campo i loro morti

49        Offusca ‘l cielo una nube da la torre
arriva il grandinar di frecce e dardi,
poco discosto su Uberto che soccorre
‘l ferito tra polledri, morti e stendardi,
corre Berto a parar la morte al fratello
con scudo d’amor, corpo e cervello.

50        Roberto scruta la Rocca gesti al vento
scorge ‘l nimico usar suprema cura,
sprezzar nella morte ogni ardimento
voler d’armi uscir da quelle mura.
S’accorpa la ciurmaglia volontaria
balestre al vento e spadacce in aria.

[1] Come in un film rivedo la battaglia sotto un fulgido sole in un luccicar di spade, nella cruda realtà lo scontro è avvenuto, come raccontano i testi, sotto una incessante pioggia.
[2] Una delle 3 Mòire, tagliava il filo della vita, raffigurando così la morte

6°   deca

51        Come miraggio la Stupenda apparve
su focoso destrier di donna Bellona,
si confondeva tra fantasmi e larve,
sotto un sol ciel, sotto ‘l motto sprona.
Or che la piana è liberata dai morenti
si corre ad espugnar con unghie e denti.

52        Ecco l’altura su l’ultim’ore vespertine 
per dar ai nimichi ‘l cruento attacco
su genti afflitte, fiacche e peregrine
fuor da la Rocca con perizia e smacco,
ne la piana e nel mezzo e quasi notte
di qua da mura si sferrano giù botte.

53        Ed ecco l’abbaglio de la falce bianca,
trova ‘l nimico fuor ne la porta chiusa,
mentre colei in ciel discresce e manca
sembrando ‘l guardo de la dea Medusa,
se cento e cento, non sarian trecento
ritraggon l’altru’imbrunati da l’argento.

54        Cercavan in lungo e largo nella notte
c’al ciel mille stelle ogn’or calaron
che molte voci s’udivano interrotte.
Al versante del bosco s’approntaron
falò per infiammar torce e lanterne,
lumi, lampade, fiaccole e lucerne.

55        Or puoi dirmi o Musa quel che resta
de l’amaro lacrimar sì dolce pianto,
quivi ti fai divina, stupenda e mesta,
or lordar puoi ‘l tuo celeste manto
lordo dal carminio dell’orrida piana,
sangue e terra scura senza meridiana. [1]

56        Or che ‘l riposo qui si volge e gira
tregua al corpo, ambo l’arti e l’alma
ogni bisogno, ogni vigore e ogn’ira,
da l’orribil sfracel in dolce calma.
S’abbruna ‘l ciel e vien ombre strane
la pace e i grilli dentro le loro tane. [2]

57        Sulla piana tornaron quiete e silenzio
Morfeo sfiorava l’iridi dormienti, [3]
alle lucerne solo lo stallier di Menzio
mentre dal ciel sorgean stelle fiorenti.
Nel nero sogno mai fu udita filastrocca
corse il gran ronfar di bocca in bocca.

58        Il sonno che spegne ‘l pensier stremato
rinforza ogni fatica e rasserena l’alma
e la bassa cadenza di un ronfar turbato
distoglie ‘l destrier dalla nera calma,
sul tenue crepuscolar della falce gialla
s’invola Morfeo con manto di farfalla. [4]

59        Una fiammella come nella notte ‘l sole
infiamma il Condottier dal viso tondo,
‘l pensier corre a Littoria, ‘l cuor duole
per la battaglia del novo dì secondo:
“Leggiadra, fammi sognar sotto la luna
figura più bella d’ella non v’è nessuna”.

60        Corre ‘l pensier e corre anche la notte,
distende ‘l velo dea Aurora al bosco [5]
su mille e mill’occhi semina le rotte,
ma ‘l sonno di Robert’è cupo e fosco
sogna l’amata tra ‘l paradiso e gloria,
le gote e sembianze di donna Littoria.

[1] nel buio non si distingue l’ora   -   [2] la natura dorme tranne i grilli.
[3-4] dio dei sogni, rappresentato con ali di farfalla, ed un mazzo di papaveri coi quali sfiora le palpebre dei dormienti.
[5] sorge ogni mattina e precede la quadriglia del Sole.

7°   deca

61        Ma Putto alato con le freccette gioca [1]
scocca a figure e cose d’ogni forma,
nell’inquieto sonno e nell’alba fioca
coglie l’eroe, e nel cuor l’informa,
la Dama sua agognata è nella mente
e nel pensier a tornar sarà presente.

62        Gira e rimesta col pensier il prode
per quei due occhi del color del mare
morir coi buoni è pur degno di lode
ma da quei ricci corvini vuol tornare,
la Musa netta la fronte carica di brina
e di Roberto quieta il riposo la divina.

63        Il gran vociar, l’odor di bende cotte,
nel dì ch’entrò, l’astro fa schermaglia
con la tenue falce della dissolta notte.
Salta l’eroe, e si ficca nella maglia
che lo scudiero serra lega e avvinghia,
turgido è ‘l prode, graffisce e ringhia.

64        Tramonta ‘l vento lieve dall’altura
stende il suo soffio, avvolge e fascia
sfiora alla dea i capelli e l’armatura,
circonda ‘l campo poi snoda e lascia,
infin va via gioioso, e il sole intanto
infiamma ‘l dì coi raggi dell’incanto.

65        Pronti a la battaglia nel dì nascente
Lupo e Astolfo per la mano manca,
Anselmo e Roberto punta irruente,
Bellona agile e pronta, rosa bianca.
In armi e tutti pronti i balestreri,
scudi e celate in mano gli scuderi.

66        Si fa la storia qua di Campomorto
ed è divisa in cento seste a cantare,
con la ciurmaglia col morso corto
alla piana voglion tornar a duellare,
soppesano la tattica tra loro i capitani
per evitar ‘l nimico in quei pantani.

67        Veleggia la Dea innanzi a Roberto:
“Io sempre fui e son la voce amica,
tua lancia, tua mazza e scudo certo
per la verde piana e la Rocca antica.”
Corre l’eroe per la città ch’è morta
e il cavallo Brino sulla distesa porta.

68        Al suo alleato lascia ‘l passo Bellona
e a destra porta i suoi cento sgherri,
rincula ‘l destrier nitrisce poi scantona,
tra picche, alabarde, mazze e ferri.
In una mano le sue insegne stringe
mentre l’altra scudo e briglie cinge.

69        Fra tutti giorni quel di San Lussurio [2]
e per l’eserciti un dì cupo e nefasto,
vuol lavar col sangue quell’ingiurio,
or prende del destriero carico e basto
s’avvia veloce prudentemente gaia,
verso l’alta Rocca sull’adagiata baia.

70        Segue l’eroe, Anselmo alla battaglia
pugnando ‘l ferro riflesso nel bagliore
che nel mezzo di tutta la ciurmaglia
tallona di lui, Bellona, il suo fetore,
poi l’arditi cavalier a doppia lama,
Astolfo i suoi sgherri e la sua fama.

[1] Eros (romano Cupido), bellissimo giovanetto, rappresentato nudo, incoronato di rose, munito di ali d’oro e di un arco con cui scoccava frecce che colpivano indistintamente il cuore degli dei e degli uomini per farli divampare d’amore, a questa legge non si sottraeva neppure Zeus.
[2] 21 agosto 1482

8°   deca

71        Già a uscir s’apprestaron dalla Rocca
Foresto, Zambone e Menelicche
per pigliar posto a lanciar la scocca,
poco più avanti Zurlo colle picche
per parar per primi la gran massa
che di lontano parean folla bassa.

72        Dai su i torrioni e da retro i merli
urlan genti dai pennacchi aurati,
i frombolieri dei nobili Saverli
son stupìti dalla calca, e disperati,
nel fissarli treman i piedi nelle calze
non più erba ma nimici fra le balze. [1]

73        Treman: Farina, Nasca con Giglietto,
Sansone, Guero e Pisciacquasanta,
Mafera, Lucciola, Tófo con Rosetto, [2]
sol a pensar a quei seicen cinquanta.
Seppur racchiusi da mura resistenti
eran cento ma battagliavan in venti.

74        Or lungo il bosco già accostato Berto
coi suoi sgherri dietro quell’altura,
a cento passi suo fratello Uberto
che nel dì innanzi se l’è vista scura.
L’uni e l’altri pronti per l’attacco
per ripulir dall’onto quello smacco.

75        Scorrazza lungo tutto quanto ‘l regno
pronto l’alfiere per dare l’avvisaglia
scruta nel piglio di Roberto ‘l segno
cala la picca e inizia la battaglia.
Brillano spade verso il ciarlatano
Alfonso duca di Calabria capitano. [3]

76        Corrono i destrier verso la Rocca
altro non appar che cielo e cardi
mentre videro uscir da quella bocca
una cerulea nube di strali e dardi,
veloci i cavalier a parar di scudi
c’al bersaglio i dardi giungon sputi.

77        Svelti al galoppar pria che scocchi
ancor dai merli le seconde strali,
balzano su Zurlo fendendo stocchi,
saltano le picche com’avesser l’ali,
facea scempio qui la peggio spada
pria d’arrivar a l’infossata strada.

78        E se i primi colpi furono mortali,
di carriera coi suoi ‘l goffo Anselmo
arrivan tutti spargendo funerali
e ‘l prode col pennacchio all’elmo
dipana colpi senza tirar fiatone,
la durlindana serra com’un bastone.

79        Alla mancina corre la bionda chioma
di Astolfo detto Toto coi suoi arcieri
facendo vuoto con sangue per aroma
e i suoi dami con forconi per lancieri,
s’arresta la ciurmaglia stupefatta
vedendo alla mancina la disfatta.

80        Apre a la dritta col destrier, Peppetto
capo dei cavalier di doppia lama,
sudici fuori ma gran cuore in petto
corron pian ma ne la disputa si brama,
roteavan lame contro scudi e teste,
mortal colpi come saette a le tempeste.

[1] sbalzi del terreno   - [2] alcuni personaggi sono veri capitani di ventura
[3] figlio del re di Napoli Ferdinando I.

9°   deca

81        Entra a la rissa col suo destrier Bellona
quasi un fuscello su orde spaventose,
scontra l’Alfonso con in testa la corona,
ma la Dea la fa apparir di spine e rose,
fu falciata netta la visione al Duca
ed anche il suo stallon prese una buca.

82        Il Delfino di Calabria in piè si drizza [1]
e salta dietro al suo vassallo in fuga
pallido in volto con bardatura e strizza
sprona ‘l poledro verso il bagnasciuga,
quivi il Duca, corona e chioma incolta
perse contegno, boria e merda sciolta.

83        Sul fulcro dell’arena drizzasi Roberto,
e dall’un’all’altr’estrem’ov’egli è visto
risveglia ardore per far rosso deserto,
‘l prode Lupo Ventura dal viso tristo
fiancheggia l’eroe dal cuore avvinto
e truce intaglia Nasca dal riso finto.

84        E se ‘l primo suo colpo fu mortale
‘l vassallo Ventura l’armi accende
la lama all’uno fende e all’altro male
difende Roberto sino a le calende.
Con finimenti e con la celata in testa
rassoda e sfoggia la sua lama in resta.

85        Eroe e vassallo sferran colpi pungenti,
soli son sempre, ma quasi mai divisi,
l’uno alle spalle all’altro sempre attenti
per lo scontrar dei quali sempre decisi.
Mostran al nimico come zanne il cane
fecero nella radura spazio immane.

86        Or l’uno or l’altro dalla Fulgida protetti
che come miraggio confondea l’avversi
che su apatici destrier d’alti garretti
correan a dritta e a manca come dispersi.
Come radiosa Dea che al segno è giunta
come spada che l’inimica lancia spunta.

87        Ultimo a balzar da la boscaglia
Menzio lucente nella sua corazza
con l’impeto dell’eroe in battaglia
dal fianco dritto turbina la mazza,
protegge il signor dal nicchio bigio
e odia dello nimico ogni vestigio.

88        I sgherri suoi intorno gli fan spiazzo
corrono al rintocco de le campane,
dopo la nebbia, di sole un sprazzo,
e sulla rada uno sfracello immane.
Menzio, benché l’ultimo al fragore,
più assai degli altri se ne fece onore.

89        Seppur mezzi recinti e mezzi fuori
dalle mura de la Rocca tramortiti,
duca Alfonso, Bernardo coi priori,
Guallo e Pesce coi suoi eran partiti,
Muzzano e Limonte com’anguille [2]
eran ducento ma fuggian per mille.

90        Quanti lutti in quell’urto fino ai denti
si son spaccati in pezzi e maciullati:
“Sotterriamoli ben bene, accidenti!
Scavate fossati grossi ed ordinati.” 
Ne seguì Anselmo i dettagli attento
sopra il suo mulo da combattimento.

[1] Alfonso, principe ereditario del re di Napoli Ferdinando I.
[2] alcuni capitani di ventura che sono fuggiti dalla disfatta di Campomorto.

10°   deca

91        Ora che avean ghermito quella rada
afferrato la Rocca e le mura intorno
‘l Malatesta avvia ‘l bottino in strada
con i Capitani pronti per il ritorno,
e Roberto corre col pensiero a Cristo 
‘l secondo all’amata, il terzo a Sisto. [1]

92        Pensier giocondi ma ‘l pantano è giuda
tremula il corpo come frasca al vento,
dentro ribolle, fuor è di ghiaccio e suda
di malaria è preso, per compir l’evento,
il male che dell’eroe gioco si prende.
la voce roca frusciata a tratti accende.

93        Urlano in giro ch’è tanta la malaria   
dilata enormi occhi e ‘l viso bianco,
brividi in corpo, sudorazione varia,
disteso su manti riposa l’eroe stanco.    
Urlano i suoi: “è febbre quel tremore”
Roberto questo male lo sente amore. [2]

94        Con ciò si torna nella città dei Volsci
avanti i Capitani su destreri spenti
dietro carri, bottino e prisonieri flosci [3]
lettighe di malaria e con feriti lenti.
Or che Roberto vidde la città sul colle
da quel giaciglio raddrizzar si volle,

95        ma avea scemato forza ed ardimento,
perciò ambasciator fece di un messo
che voli a dir all’amor ‘l suo tormento
che torni con l’amata in suo possesso.
Poiché a la città fu giunto affranto
bramò di riposar sotto ‘l suo manto.

96        Serrò allor con voglia e immenso ardore
quel velo al petto preso alla partenza
di color tramonto e celestiali aurore
e gli occhi socchiuse nella sonnolenza.
La Musa allor fermò ‘l fluido Acheronte [4]
e col suo palmo gli asciugò la fronte.

97        Littoria corse veloce a quel campione
fu allor che lo vidde steso sul giaciglio,
occhi di pianto, parla pien d’emozione
in ogni sillaba si fonde l’ultim’appiglio.
Dal lato manco tossiva l’eroe affranto
entrambi ardon d’amor e lei al pianto.

98        Or che l’eroe a seder non si potea rizzare
l’Amor lo strinse forte e se lo abbraccia
quest’ultim’ora il cor si può spezzare
e preme e tocca il petto che lei allaccia,
Atropo come saetta arriva e già recide
Littoria scoppia al pianto e si divide:

99        “Di che si pasce il cor, ch’altro non vole,
prego sol per sfogar l’interna doglia,
e non per giunger lume al mio bel sole,
che lasciò in terra sì onorata spoglia.
La pura fe’, l’ardor, l’intensa pena
che né ragion né tempo mai l’affrena”. [5]

100      Così vogl’io finir quest’avventura,
ma se nessun si sa raccapezzare
nell’evo della spada e l’armatura
non poss’io aiutarvi a superare.
E dopo il dilettare in questa storia
do svago e licenza a la memoria.

[1] Littoria e Sisto IV Rovere   -   [2] tratto da un antico stornello romano.
[3] sono prigionieri 360 uomini d’arme.   -   [4] fangoso fiume infernale, solo
le anime dei morti potevano superarlo sulla barca di Caronte.
[5] L’intera sestina è presa da una poesia di Vittoria Colonna (1558-1633), una delle più floride poetesse del ‘500.


Bibliografia

Moreno Montagna - “Passione Nostrana” poema cavalleresco
                                           (stampato nel giorno bisestile del 2008)